La vita di frate Francesco
La vita di S.Francesco di Assisi attraverso una serie di testi, spesso di carattere letterario scritti da biografi a lui contemporanei e vicini.
Francesco nacque ad Assisi nel 1182. Figlio di un ricco mercante di stoffe della città, Pietro di Bernardone e di sua moglie Madonna Pica.
La madre lo volle chiamare Giovanni, ma il padre, cominciò a chiamarlo Francesco dimenticando così il suo vero nome.
Ricevette un’ottima educazione e istruzione poiché il rango della sua famiglia si poteva permettere qualsiasi tipo di insegnamento.
L’appartenenza ad un ceto elevato fece di lui un rampollo allegro e amante dei divertimenti, senza però mai perdere una generosità non superficiale e una profonda sensibilità d’animo che Francesco rivelò di avere da sempre.
Francesco ha grandi sogni e grandi progetti per se stesso e i genitori (soprattutto il padre) non perdono occasione di pungolarlo perché realizzi tutti i suoi desideri.
Si narra che a quel tempo incontrasse spesso per le vie della città un pover uomo che viveva in strada, con qualche elemosina occasionale.
Questo povero, ogni qual volta incrociava Francesco che passava a piedi o a cavallo, prendeva i suoi miseri stracci e li stendeva davanti a lui, quasi a comunicargli la visione di un suo futuro di uomo importante e potente.
Appena 20enne, Francesco si cimenta nella battaglia di Collestrada contro i Perugini… ma purtroppo in questa occasione viene fatto prigioniero.
Sarà messo nelle galere dei Perugini e ne uscirà solo dopo la pace raggiunta fra le due città.
Proprio questa esperienza contribuirà a cambiarlo… a scalfire la sua sicurezza di uomo ricco e felice. Al suo rilascio, dopo la pace raggiunta fra Assisi e Perugia, si ammalerà e anche questo, seppur senza grandi conseguenze, contribuirà a renderlo inquieto e meno sicuro della sua condizione terrena.
Decise quindi di diventare cavaliere e per questo si unì al conte Gentile in viaggio per la Puglia… qui l’avrebbero nominato cavaliere. Fu proprio in questo periodo che Francesco ebbe i primi segni premonitori di quello che diventerà. Una notte, in sosta a Spoleto, nel dormiveglia udì una voce che gli diceva: “Chi può meglio trattarti: il Signore o il servo?”. E lui a questa voce rispose: “Il Signore”. La voce replicò: “E allora perché abbandoni il Signore per il servo?”.
All’indomani, Francesco abbandonò cavallo e armi e tornò ad Assisi.
Fu deriso per quanto aveva fatto, sia dai compagni di ventura, sia da amici e anche dai tanti cittadini. Dopo di che si chiuse in se stesso.
Si accorse poi che l’abbraccio dei malati e dei lebbrosi lo rendevano più felice di quanto non lo fosse mai stato. Capì di esser cambiato.
Trascorso un anno in solitudine, in preghiera e al servizio dei lebbrosi, decise di rinunciare alla dote paterna, assumendo la condizione di penitente volontario.
Nella chiesetta di S. Damiano, fuori l’abitato, il Crocifisso gli si manifestò e gli ingiunse di riparare la sua casa in rovina. Così Francesco pur continuando nell’assistenza ai lebbrosi si dedicò al restauro di alcune chiese in rovina, del contado assisano.
Il padre, vedendolo spendere tutti i suoi soldi e dar fondo a tutte le risorse, dapprima tentò di rinchiuderlo in casa e poi lo portò al cospetto del vescovo sperando nella sua forza di convincimento a tornare il Francesco di un tempo… quello che tutti conoscevano.
E fu proprio in questo frangente che Francesco sorprese tutti, spogliandosi di tutte le vesti per indossare un semplicissimo saio e dichiarando la sua completa appartenenza a Dio.
Era il 1208 e tanta gente fu attratta dalle scelte di vita di Francesco.
Con i suoi primi compagni, Francesco si recherà a Roma per chiedere a Papa Innocenzo III l’approvazione della loro forma di vita religiosa (1209).
Il Papa, aiutato anche da uno strano sogno, non tardò a comprendere l’importanza di questo giovane e del suo profondo messaggio cristiano, concesse a Francesco di predicare la penitenza, rimandando a tempi seguenti l’approvazione della sua Regola.
Francesco, spinto dal desiderio di testimoniare Cristo anche nei paesi musulmani, si diresse verso la Terra santa.
Nel 1219 raggiunse Damietta, in Egitto, dove, durante una tregua nei combattimenti della quinta crociata, venne ricevuto e protetto dal Sultano al-Malik al-Kamil.
Rientrò ad Assisi nel 1220 e rinunciò al governo del movimento da lui nato.
Non rinunciò però a rimanerne la guida spirituale.
Nel maggio del 1221 si radunò in Assisi, insieme ad un numero rilevante di frati (si narra fossero dai 3 ai 5000 seguaci),e qui si discusse il testo di una Regola da sottoporre alla Curia Romana e in questa occasione testimoniò la nomina di frate Elia quale suo successore.
Dopo un processo di revisione del testo della Regola, al quale collaborò anche il cardinale Ugolino d’Ostia (futuro papa Gregorio IX), nel novembre 1223, venne finalmente approvata da Onorio III, con la bolla “Solet Annuere”.
Durante la notte di Natale del 1223, a Greccio, Francesco volle rievocare la nascita di Gesù, dando vita ad una rappresentazione vivente, per vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si era trovato il Bambino di Betlemme, per la mancanza delle cose normalmente presenti alla nascita di un bambino. Da questo episodio ebbe origine la tradizione del presepe.
Nel 1224 Francesco si ritirò con frate Leone sul monte della Verna per celebrarvi una quaresima in onore di san Michele Arcangelo. Il 17 settembre, Francesco ebbe la visione del serafino. Al termine della visione, nelle sue mani e nei piedi, apparvero i segni dei chiodi che aveva Cristo crocifisso. L’episodio è confermato dall’annotazione di frate Leone sulla chartula autografa di Francesco (attualmente conservata presso il Sacro Convento di Assisi): “Due anni prima della sua morte, Francesco fece una quaresima sul monte della Verna…e fu come se Dio si posasse su di lui mediante la visione del serafino e l’impressione delle stimmate di Cristo nel suo corpo”.
Nell’ultimo biennio di vita di Francesco, compose il Cantico di Frate Sole o Cantico delle Creature.
Sono questi gli anni in cui Francesco, sempre più tribolato da gravi disturbi al fegato e da un tracoma agli occhi, vide crollare le sue condizioni fisiche.
Quando le sue condizioni di salute si aggravarono drasticamente, fu riportato alla Porziuncola, dove morì nella notte fra il 3 e il 4 ottobre 1226. Il giorno seguente il suo corpo, dopo una sosta presso San Damiano, fu portato in Assisi e venne sepolto nella chiesa di San Giorgio.
Frate Francesco fu canonizzato il 19 luglio 1228 da Papa Gregorio IX. Il 25 maggio 1230 la sua salma fu trasferita dalla chiesa di San Giorgio e tumulata nell’attuale Basilica di San Francesco, fatta costruire celermente da frate Elia su incarico di Gregorio IX tra il 1228 e il 1230.
Il miracolo degli uccelli In un’altra circostanza, mentre Francesco attraversava insieme con un frate le paludi di Venezia, trovò una grandissima moltitudine di uccelli, che se ne stavano tra le fronde a cantare. Come li vide, disse al compagno: “I fratelli uccelli stanno lodando il Creatore; perciò andiamo in mezzo a loro a recitare insieme le lodi del Signore e le ore canoniche”. Andarono in mezzo a loro e gli uccelli non si mossero. Poi, siccome per il gran garrire non potevano sentirsi l’un l’altro nel recitare le ore, il santo si rivolse agli uccelli e disse: “Fratelli uccelli, smettete di cantare fino a quando avremo finito di recitare le lodi prescritte”. Quelli tacquero immediatamente e se ne stettero zitti, fino al momento in cui, recitate a bell’agio le ore e terminate debitamente le lodi, il santo diede la licenza di cantare. Appena l’uomo di Dio ebbe accordato il permesso, ripresero a cantare secondo il loro costume. (Dalla Leggenda Maggiore di San Bonaventura, VIII 9 : FF 1154).
Cantico delle Creature (o di Frate Sole) Altissimu, onnipotente, bon Signore, Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedizione. Ad Te solo, Altissimo, se konfane, e nullu homo ène dignu Te mentovare. Laudato sie, mi’ Signore, cum tutte le Tue creature, spezialmente messor lo frate Sole, lo quale è iorno et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de Te, Altissimo, porta significazione. Laudato si’, mi’ Signore, per sora Luna e le stelle: in celu l’ài formate clarite e preziose e belle. Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento e per aere e nubilo e sereno et onne tempo, per lo quale a le Tue creature dài sustentamento. Laudato si’, mi’ Signore, per sor’Acqua, la quale è multo utile et humile e preziosa e casta. Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu, per lo quale ennallumini la notte: et ello è bello e iocundo e robustoso e forte. Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta e governa, e produce diversi frutti con coloriti flori et herba. Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore e sostengo infirmitate e tribulazione. Beati quelli ke ‘l sosterrano in pace, ka da Te, Altissimo, sirano incoronati. Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale nullu homo vivente po’ skappare: guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le Tue santissime voluntati, ka la morte secunda no ‘l farrà male. Laudate e benedicete mi’ Signore e rengraziate e serviateli cum grande humilitate. (FF 263)
SAN FRANCESCO DEL DESERTO Ode San Francesco del Deserto, romitaggio lagunare, d’un settemplice filare di cipressi ricoperto; questo vento vien dal mare e disfiora il tuo Convento, e d’un lieve movimento ti fa l’acqua scintillare. S’ode un vivo cinguettare per le tue paludi intorno, e nel pieno mezzogiorno una navicella appare. Essa muove piano piano sovra l’alighe palustri; fra quei tremuli ligustri lenta va verso Burano. Da Burano non lontano giunge suono di campane, che le belle popolane chiama al desco rusticano. Sosta l’opra della mano che tessea merletti vaghi; hanno tregua fili ed aghi nel tepore meridiano. Sulla lastre, che fragore di sonanti zoccoletti, o Burano dei merletti o Burano dell’amore! Ma non giunge quel rumore qui, nell’ombra claustrale, nel silenzio sempre uguale, sempre uguale a tutte l’ore. Qui la pace delle aurore dura tutta la giornata: solitudine beata per chi vive e per chi muore. “O beatitudo sola, o beata solitudo”! Sull’antico muro ignudo sta la mistica parola; la parola, che consola il mio spirito dolente e lo culla dolcemente, come suono di viola. Siimi tu lucente scudo, siimi tu divina scuola, “O beatitudo sola, o beata solitudo”! Angiolo Orvieto
San Francesco e il Natale a Greccio L’aspirazione più alta di Francesco, il suo desiderio dominante, la sua volontà più ferma era di osservare perfettamente e sempre il santo Vangelo e di seguire fedelmente con tutta la vigilanza, con tutto l’impegno, con tutto lo slancio dell’anima e il fervore del cuore l’insegnamento del Signore nostro Gesù Cristo e di imitarne le orme. Meditava continuamente le sue parole e con acutissima attenzione non ne perdeva mai di vista le opere. Ma soprattutto l’umiltà dell’incarnazione e la carità della passione aveva impresse così profondamente nella sua memoria, che difficilmente voleva pensare ad altro. A questo proposito dobbiamo raccontare, richiamando devotamente alla memoria, quello che realizzò tre anni prima della sua gloriosa morte, a Greccio, il giorno del Natale di nostro Signore Gesù Cristo. C’era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita ancora migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne. Circa quindici giorni prima della festa della Natività, il beato Francesco lo fece chiamare, come faceva spesso, e gli disse: “Se vuoi che celebriamo a Greccio l’imminente festa del Signore, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei fare memoria di quel Bambino che è nato a Betlemme, e in qualche modo intravedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato; come fu adagiato in una mangiatoia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”. Appena l’ebbe ascoltato, quell’uomo buono e fedele se ne andò sollecito e approntò, nel luogo designato, tutto secondo il disegno esposto dal santo. E giunse il giorno della letizia, il tempo dell’esultanza! Per l’occasione sono qui convocati frati da varie parti; uomini e donne del territorio preparano festanti, ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per rischiarare quella notte, che illuminò con il suo astro scintillante tutti i giorni e i tempi. Arriva alla fine il santo di Dio e, trovando che tutto è stato predisposto, vede e se ne rallegra. Si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello. In quella scena si onora la semplicità, si esalta la povertà, si loda l’umiltà. Greccio è divenuta come una nuova Betlemme. Questa notte è chiara come pieno giorno e deliziosa per gli uomini e per gli animali! La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima, davanti al rinnovato mistero. La selva risuona di voci e le rupi echeggiano di cori festosi. Cantano i frati le debite lodi al Signore, e la notte è tutto un sussulto di gioia. Il santo di Dio è lì estatico di fronte alla mangiatoia, lo spirito vibrante pieno di devota compunzione e pervaso di gaudio ineffabile. Poi viene celebrato sulla mangiatoia il solenne rito della messa e il sacerdote assapora una consolazione mai gustata prima. Francesco si veste da levita, perché era diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora è un invito per tutti a pensare alla suprema ricompensa. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme. Spesso, quando voleva pronunciare Cristo con il nome di “Gesù”, infervorato di immenso amore, lo chiamava “il Bambino di Betlemme”, e quel nome “Betlemme” lo pronunciava come il belato di una pecora, riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto. E ogni volta che diceva “Bambino di Betlemme” o “Gesù”, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e deglutire tutta la dolcezza di quella parola. Vi si moltiplicano i doni dell’Onnipotente, e uno dei presenti, uomo virtuoso, ha una mirabile visione. Vide nella mangiatoia giacere un fanciullino privo di vita, e Francesco avvicinarglisi e destarlo da quella specie di sonno profondo. Né questa visione si discordava dai fatti perché, a opera della sua grazia che agiva per mezzo del suo santo servo Francesco, il bambino Gesù fu risuscitato nel cuori di molti, che l’avevano dimenticato, e fu impresso profondamente nella loro memoria amorosa. Terminata quella veglia solenne, ciascuno tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia. (Tommaso da Celano, Vita prima 84-86 : FF 466-470)
Dalla Regola Bollata dei frati Minori (Rb 2,1-3.5-6)
“Se alcuni vorranno intraprendere questa vita e verranno dai nostri frati, questi li mandino dai loro ministri provinciali, ai quali soltanto e non ad altri sia concesso di ammettere i frati.
I ministri, poi, diligentemente li esaminino intorno alla fede cattolica e ai sacramenti della Chiesa.
E se credono tutte queste cose e le vogliono fedelmente professare e osservare fedelmente fino alla fine […] dicano ad essi la parola del santo Vangelo, che vadano e vendano tutto quello che posseggono e procurino di darlo ai poveri.
Se non potranno farlo, basta ad essi la buona volontà.”
Dal Testamento di San Francesco (Test 14-23)
Dopo che il Signore mi dette dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo.
Ed io la feci scrivere con poche parole e con semplicità, e il signor Papa me la confermò.
E quelli che venivano per abbracciare questa vita, distribuivano ai poveri tutto quello che potevano avere, ed erano contenti di una sola tonaca, rappezzata dentro e fuori, del cingolo e delle brache. E non volevamo avere di più.
Noi chierici dicevamo l’ufficio, conforme agli altri chierici; i laici dicevano i Pater noster; e assai volentieri ci fermavamo nelle chiese. Ed eravamo illetterati e sottomessi a tutti.
Ed io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare; e voglio fermamente che tutti gli altri frati lavorino di un lavoro quale si conviene all’onestà. Coloro che non sanno, imparino, non per la cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma per dare l’esempio e tener lontano l’ozio.
Quando poi non ci fosse data la ricompensa del lavoro, ricorriamo alla mensa del Signore, chiedendo l’elemosina di porta in porta.
Il Signore mi rivelò che dicessimo questo saluto: “Il Signore ti dia la pace!”
Dalla Vita Prima di San Francesco di fra Tommaso da Celano (1C 6-7: FF 329-330)
“Vi era ad Assisi un giovane, che Francesco amava più degli altri. Poiché era suo coetaneo e l’amicizia pienamente condivisa lo invitava a confidargli i suoi segreti, Francesco lo portava con sé in posto adatti al raccoglimento dello spirito, rivelandogli di aver scoperto un tesoro grande e prezioso. L’amico, esultante e incuriosito, accettava sempre volentieri l’invito di accompagnarlo.
Alla periferia della città c’era una grotta, in cui essi andavano sovente, parlando del “tesoro”. L’uomo di Dio, già santo per desiderio di esserlo, vi entrava, lasciando fuori il compagno ad attendere, e, pieno di nuovo insolito fervore, pregava il Padre suo in segreto. Desiderava che nessuno sapesse quanto accadeva in lui là dentro; e, celando saggiamente a fin di bene in meglio, solo a Dio affidava i suoi santi propositi. Supplicava devotamente Dio eterno e vero di manifestargli la sua vita e di insegnargli a realizzare il suo volere. Si svolgeva in lui una lotta personale, né poteva darsi pace, finché non avesse compiuto ciò che aveva deliberato. Mille pensieri l’assalivano senza tregua e la loro insistenza lo gettava nel turbamento e nella sofferenza.
Bruciava interiormente di fuoco divino, e non riusciva a dissimulare il fervore della sua anima. Deplorava i suoi gravi peccati, le offese fatte agli occhi della maestà divina. Le vanità del passato o del presente non avevano per lui più nessuna attrattiva, ma non si sentiva ancora completamente sicuro di saper resistere a quelle future. Si comprende perciò come, facendo ritorno al suo compagno, fosse tanto spossato da apparire irriconoscibile.
Un giorno finalmente, dopo aver implorato con tutto il cuore la misericordia divina, gli fu rivelato dal Signore come doveva comportarsi. E da allora fu ripieno di tanto gaudio che, non riuscendo a contentarsi per la gioia, lasciava, pur non volendo, trasparire qualcosa agli uomini.”
Dalla Vita Seconda di San Francesco di fra Tommaso da Celano (2C 6: FF 586-587)
“Subito dopo gli appare in visione uno splendido palazzo, in cui scorge armi di ogni specie e una bellissima sposa. Nel sonno Francesco si sente chiamare per nome e lusingare con la promessa di tutti quei beni.
Allora, tenta di arruolarsi per la Puglia e fa ricchi preparativi nella speranza di essere presto insignito del grado di cavaliere. Il suo spirito mondano gli suggeriva una interpretazione mondana della visione, mentre ben più nobile era quella nascosta nei tesori della sapienza di Dio.
E infatti un’altra notte, mentre dorme, sente di nuovo una voce, che gli chiede premurosa dove intenda recarsi. Francesco espone il suo proposito, e dice di volersi recare in Puglia per combattere. Ma la voce insiste e gli domanda chi ritiene possa essergli più utile, il servo o il padrone.
“Il padrone”, risponde Francesco.
“E allora – riprende la voce – perché cerchi il servo in luogo del padrone?”
E Francesco: “Cosa vuoi che io faccia, o Signore?”
“Ritorna – gli risponde il Signore – alla tua terra natale, perché per opera mia si adempirà spiritualmente la tua visione”. Ritornò senza indugio, fatto ormai modello di obbedienza e trasformato col rinnegamento della sua volontà.”
Dalla Leggenda dei Tre Compagni (3Comp 7: FF 1402)
“Tornato che fu dunque ad Assisi, dopo alcuni giorni, i suoi amici lo elessero una sera loro signore, perché organizzasse il trattenimento a suoi piacere. Egli fece allestire, come tante altre volte, una cena sontuosa.
Terminato il banchetto, uscirono da casa. Gli amici gli camminavano innanzi; lui, tenendo in mano una specie di scettro, veniva per ultimo, ma invece di cantare, era assorto nelle sue riflessioni.
D’improvviso, il Signore lo visitò, e n’ebbe il cuore riboccante di tanta dolcezza, che non poteva muoversi né parlare, non percependo se non quella soavità, che lo estraniava da ogni sensazione, così che (come poi ebbe a confidare lui stesso) non avrebbe potuto muoversi da quel posto, anche se lo avessero fatto a pezzi.
Gli amici, voltandosi e scorgendolo rimasto così lontano, lo raggiunsero e restarono trasecolati nel vederlo mutato in un altro uomo. Lo interrogarono: “A cosa stavi pensando, che non ci hai seguiti? Almanaccavi forse di prender moglie?” Rispose con slancio: “È vero. Stavo sognando di prendermi in sposa la ragazza più nobile, ricca e bella che mai abbiate visto”. I compagni si misero a ridere. Francesco disse questo non di sua iniziativa, ma ispirato da Dio.
E in verità la sua sposa fu la vita religiosa, resa più nobile e ricca e bella dalla povertà.”
Dalla Leggenda dei Tre Compagni (3Comp 11: FF 1407-1408)
“Un giorno che stava pregando fervidamente il Signore, sentì dirsi: “Francesco, se vuoi conoscere la mia volontà, devi disprezzare e odiare tutto quello che mondanamente amavi e bramavi possedere. Quando avrai cominciato a fare così, ti parrà insopportabile e amaro quanto per l’innanzi ti era attraente e dolce; e dalle cose che una volta aborrivi, attingerai dolcezza grande e immensa soavità”.
Felice di questa rivelazione e divenuto forte nel Signore, Francesco, mentre un giorno calcava nei paraggi di Assisi, incontrò sulla strada un lebbroso. Di questi infelici egli provava un invincibile ribrezzo; ma stavolta, facendo violenza al proprio istinto, smontò da cavallo e offrì al lebbroso un denaro, baciandogli la mano. E ricevendone un bacio di pace, risalì a cavallo e seguitò il suo cammino. Da quel giorno cominciò a svincolarsi dal proprio egoismo, fino al punto di sapersi vincere perfettamente, con l’aiuto di Dio.
Trascorsi pochi giorni, prese con sé molto denaro e si recò all’ospizio dei lebbrosi; li riunì e distribuì a ciascuno l’elemosina, baciandogli la mano. Nel ritorno, il contatto che dianzi gli riusciva repellente, quel vedere cioè e toccare dei lebbrosi, gli si trasformò veramente in dolcezza. Confidava lui stesso che guardare i lebbrosi gli era talmente increscioso, che non solo si rifiutava di vederli, ma nemmeno sopportava di avvicinarsi alle loro abitazioni. Capitandogli di transitare presso le loro dimore o di vederne qualcuno, sebbene la compassione lo stimolasse a fare l’elemosina per mezzo di qualche altra persona, lui voltava però sempre la faccia all’altra parte e si turava le narici. Ma per grazia di Dio diventò compagno e amico dei lebbrosi così che, come afferma nel su oestamento, stava in mezzo a loro e li serviva umilmente.”
Dalla Vita Seconda di San Francesco di fra Tommaso da Celano (2C 10: FF 593-594)
“Era già del tutto mutato nel cuore e prossimo a divenirlo anche nel corpo, quando, un giorno, passò accanto alla chiesa di San Damiano, quasi in rovina e abbandonata da tutti.
Condotto dallo Spirito, entra a pregare, si prostra supplice e devoto davanti al Crocifisso e, toccato in modo straordinario dalla grazia divina, si ritrova totalmente cambiato. Mentre egli è così profondamente commosso, all’improvviso – cosa da sempre inaudita – l’immagine di Cristo crocifisso, dal dipinto gli parla, movendo le labbra.
“Francesco, – gli dice chiamandolo per nome – va’, ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina”.
Francesco è tremante e pieno di stupore, e quasi perde i sensi a queste parole. Ma subito si dispone ad obbedire e si concentra tutto su questo invito. Ma, a dir vero, poiché neppure lui riuscì mai ad esprimere l’ineffabile trasformazione che percepì in se stesso, conviene anche a noi coprirla con un velo di silenzio.
Da quel momento si fissò nella sua anima santa la compassione del Crocifisso e, come si può piamente ritenere, le venerande stimmate della Passione, quantunque non ancora nella carne, gli si impressero profondamente nel cuore.”
Dalla Leggenda dei Tre Compagni (3Comp 19-20: FF 1419)
“Constatando che il suo ricorso ai consoli si concludeva in un nulla, Pietro di Bernardone andò a sporgere querela davanti al vescovo della città. Questi, da persona discreta e saggia, chiamò Francesco con i modi dovuti, affinché venisse a rispondere alla querela del genitore.
Il giovane rispose al messaggero: “Da messer vescovo ci vengo, poiché egli è padre e signore delle anime”.
Venne dunque all’episcopio, e fu ricevuto dal pastore con grande gioia. Il vescovo gli disse: “Tuo padre è arrabbiato con te e molto alterato per causa tua. Se vuoi essere servo di Dio, restituiscigli i soldi che hai; oltretutto è ricchezza forse di mal acquisto, e Dio non vuole che tu spenda a beneficio della Chiesa i guadagni del padre tuo. La sua collera sbollirà, se recupera il denaro. Abbi fiducia nel Signore, figlio mio, e agisci con coraggio. Non temere, poiché l’Altissimo sarà tuo soccorritore, e ti largirà in abbondanza quanto sarà necessario per la sua Chiesa”.
L’uomo di Dio si alzò, lieto e confortato dalle parole del vescovo, e traendo fuori i soldi, disse: “Messere, non soltanto il denaro ricavato vendendo la sua roba, ma gli restituirò di tutto cuore anche i vestiti”. Entrò in una camera, si spogliò completamente, depose sui vestiti il gruzzolo, e uscendo nudo alla presenza del vescovo, del padre e degli astanti, disse: “Ascoltate tutti e cercate di capirmi. Finora ho chiamato Pietro di Bernardone padre mio. Ma dal momento che ho deciso di servire Dio, gli rendo il denaro che tanto lo tormenta e tutti gli indumenti avuti da lui. D’ora in poi voglio dire: “Padre nostro, che sei nei cieli”, non più “padre mio Pietro di Bernardone”. I presenti videro che l’uomo di Dio portava sulla carne, sotto begli abiti colorati, un cilicio.
Addolorato e infuriato, Pietro si alzò, prese denari e vestiti, e se li portò a casa. Quelli che assistevano alla scena, rimasero indignati contro di lui, che non lasciava al figlio nemmeno di che vestirsi. E presi da compassione, piangevano su Francesco.
Il vescovo, considerando attentamente l’uomo santo e ammirando tanto slancio e intrepidezza, aprì le braccia e lo coprì con il suo mantello. Aveva capito chiaramente ch’egli agiva per ispirazione divina e che l’accaduto conteneva un presagio misterioso. Da quel giorno diventò suo protettore. Lo esortava e incitava, lo dirigeva e amava con affetto grande.”
Dalla Vita Seconda di San Francesco di fra Tommaso da Celano (2C 15: FF 601)
“Bernardo, un cittadino di Assisi, che poi divenne figlio di perfezione, volendo seguire il servo di Dio nel disprezzo totale del mondo, lo scongiurò umilmente di dargli il suo consiglio.
Gli espose dunque il suo caso: “Padre, se uno dopo avere a lungo goduto dei beni di qualche signore, non li volesse più tenere, cosa dovrebbe farne per agire nel modo più perfetto?” Rispose l’uomo di Dio: “Deve restituirli tutti al padrone, da cui li ha ricevuti”.
E Bernardo: “So che quanto possiedo mi è stato dato da Dio e, se tu me lo consigli, sono pronto a restituirgli tutto”. Replicò il Santo: “Se vuoi comprovare coi fatti quanto dici, appena sarà giorno, entriamo in chiesa, prendiamo il libro del Vangelo e chiediamo consiglio a Cristo”.
Venuto il mattino, entrano in una chiesa e, dopo aver pregato devotamente, aprono il libro del Vangelo, disposti ad attuare il primo consiglio che si offra loro. Aprono il libro, e il suo consiglio Cristo lo manifesta con queste parole: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quanto possiedi e dallo ai poveri” (Mt 19,21). Ripetono il gesto, e si presenta il passo: “Non prendete nulla per il viaggio” (Lc 9,3). Ancora una terza volta, e leggono: “Chi vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso” (Lc 9,23).
Senza indugio Bernardo eseguì tutto e non tralasciò neppure un iota. Molti altri, in breve tempo, si liberarono dalle mordacissime cure del mondo e, sotto la guida di Francesco, ritornarono all’infinito bene nella patria vera.”
Dalla Leggenda dei Tre Compagni (3Comp 30-31: FF 1433-1434)
“Il giorno che messer Bernardo stava distribuendo i suoi beni ai poveri, Francesco era presente e mirava quell’opera stupenda del Signore, glorificandolo e lodandolo in cuor suo.
Capitò colà un sacerdote, di nome Silvestro, da cui Francesco aveva comprato pietre per il restauro di San Damiano. Vedendo distribuire tutto quel denaro per consiglio dell’uomo di Dio, Silvestro fu preso da morbosa cupidigia e gli disse: “Francesco, non mi hai pagato come dovevi le pietre acquistate da me”.
Udendo la recriminazione ingiusta, il Santo, che abominava l’avarizia, si accostò a messer Bernardo, affondò la mano nel suo mantello gremito di monete, e la tirò fuori piena di soldi, che versò al prete borbottone. Ne agguantò poi un’altra manciata, dicendo: “Sei pagato a dovere, adesso, messer sacerdote?” Rispose Silvestro: “Oh, sì, fratello”. E tutto gongolante tornò a casa col denaro.
Ma pochi giorni dopo, il prete Silvestro, ispirato dal Signore, si mise a riflettere sul gesto di Francesco. E diceva fra sé: “Sono proprio un miserabile! Eccomi vecchio, e ancora a concupire e cercare insaziabilmente le cose di questo mondo: mentre questo giovane le disprezza e calpesta per amore di Dio” […]Cominciò a temere Dio e a fare penitenza a casa sua. E poco tempo dipoi entrò nel nuovo Ordine, vi condusse una vita santa e finì con una morte gloriosa.”
Dalla Leggenda di Santa Chiara Vergine (LegsC 7-8: FF 3168-3171)
“Era prossima la solennità delle Palme, quando la fanciulla (Chiara) con cuore ardente si reca dall’uomo di Dio (Francesco), per chiedergli che cosa debba fare e come, ora che intende cambiare vita.
Il padre Francesco le ordina che il giorno della festa, adorna ed elegante, vada a prendere la palma in mezzo alla folla, e la notte seguente, uscendo dall’accampamento, converta la gioia mondana nel pianto della passione del Signore.
Venuta dunque la domenica, la fanciulla entra in chiesa con le altre, radiosa di splendore festivo tra il gruppo delle nobildonne.
E lì avvenne – come per un significativo segno premonitore – che, affrettandosi tutte le altre a prendere la palma, Chiara quasi per un senso di riserbo, rimane ferma al suo posto: ed ecco che il vescovo discende i gradini, va fino a lei e le pone la palma tra le mani.
La notte seguente, pronta ormai ad obbedire al comando del Santo, attua la desiderata fuga, in degna compagnia. E poiché non ritenne opportuno uscira dalla porta consueta, riuscì a schiudere da sola, con le sue proprie mani, con una forza che a lei stessa parve prodigiosa, una porta secondaria ostruita da mucchi di travi e di pesanti pietre.
Abbandonati, dunque, casa, città e parenti, si affrettò verso Santa Maria della Porziuncola, dove i frati, che vegliavano in preghiera presso il piccolo altare di Dio, accolsero la vergine Chiara con torce accese. Lì subito, rinnegate le sozzure di Babilonia, consegnò al mondo il libello del ripudio; lì, lasciando cadere i suoi capelli per mani dei frati, depose per sempre i variegati ornamenti.
Ne sarebbe stato giusto che, alla sera dei tempi, germogliasse altrove l’Ordine della fiorente verginità, se non lì, nel tempio di colei che, prima tra tutte e di tutte la più degna, unica fu madre e vergine.
Questo è quel famoso luogo nel quale ebbe inizio la nuova schiera dei poveri, guidata da Francesco: così che appare chiaramente che fu la Madre della misericordia a partorire nella sua dimora l’uno e l’altro Ordine.”